PER UN’INTEPRETAZIONE SINDACALE DEL CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO “A TUTELE CRESCENTI”

da | Apr 27, 2015 | Saggi e Articoli

(a cura di Marco Lai, Centro Studi Cisl)*

Premessa

In un impianto nel complesso positivo, stante in particolare la volontà di promuovere il contratto a tempo indeterminato, seppur “a tutele/indennizzo crescenti”, con forti incentivi sul piano fiscale e contributivo, nonché il rafforzamento delle procedure conciliative volte ad evitare il ricorso giudiziario (criticità sono invece da evidenziare per i lavoratori delle piccole imprese, in materia di successione di appalti e di licenziamenti collettivi), si tratta di fornire in sede applicativa un’interpretazione della nuova disciplina, in vigore dal 7 marzo scorso, volta quanto più possibile a tutelare il lavoro e a valorizzare il ruolo della contrattazione collettiva.

Indicazioni specifiche:

*La pretesa distinzione tra fatto materiale e fatto giuridico, operata da parte della dottrina e della giurisprudenza, è assai opinabile: dovrà infatti in ogni caso trattarsi di un fatto “imputabile” al lavoratore, tale da qualificarsi come inadempimento contrattuale. Non qualunque fatto, ancorchè sussistente, può infatti giustificare una reazione datoriale così rilevante come il licenziamento disciplinare, qualora il lavoratore possa dimostrare la sua assoluta buona fede e l’assenza di colpevolezza (si pensi ad esempio al lavoratore che si assenti per urgenti motivi familiari dimenticandosi in luogo aperto al pubblico un documento di accesso ai dati aziendali) (si veda, tra le ultime, Cassazione n. 25608/2014);

*Altro aspetto problematico riguarda il riparto dell’onere della prova. Fermo restando l’onere della prova a carico del datore di lavoro in riferimento alla legittimità del motivo addotto per il licenziamento, non essendo sul punto superato il principio posto dall’art. 5, della legge n. 604/1966, l’onere della prova rispetto alla insussistenza del fatto materiale contestato è in capo al lavoratore. La previsione che tale insussistenza debba essere “direttamente dimostrata in giudizio” ha a che fare non tanto il riparto ex ante degli oneri istruttori bensì solo gli esiti (ex post) dell’istruttoria stessa, cioè il convincimento finale del giudice. Al riguardo occorrerà indirizzarsi verso indagini difensive più attive da parte del lavoratore.

Sul punto è inoltre da precisare che l’insufficienza delle prove equivale ad insussistenza del fatto posto a base del licenziamento (si veda Cassazione 6 novembre 2014, n. 23669);

*Il tentativo di sottrarre all’accertamento giudiziale l’eventuale sproporzione della sanzione del licenziamento rispetto all’“insussistenza” (più propriamente alla “sussistenza”) del fatto materiale contestato al lavoratore contrasta con principi fondamentali del nostro ordinamento, quale il principio di proporzionalità tra mancanze e sanzioni, espressamente riconosciuto dall’art. 2106 del cod. civ., nonché con il principio di eguaglianza (e di ragionevolezza) di cui all’art. 3, della Cost., oltreché con il diritto internazionale e comunitario del lavoro, difficilmente superabili, pena il dar luogo a situazioni per cui una mancanza lieve (ad esempio il ritardo al lavoro) sarebbe punita con la sanzione massima (licenziamento con indennizzo). Si arriverebbe altrimenti alla conclusione paradossale per cui il principio di proporzionalità vale per tutti i poteri e pene private e pubbliche, ma non per i licenziamenti.

Il principio di proporzionalità trova peraltro esemplificazione nei codici disciplinari previsti dalla disciplina collettiva. Sul punto è da sottolineare che stante i principi generali che regolano il rapporto tra legge e contrattazione collettiva, le previsioni contrattuali in materia di sanzioni disciplinari continueranno a valere, per quanto applicabili, anche in presenza del nuovo regime, potendosi considerare come “norme di miglior favore” per il lavoratore. Da invocare peraltro anche il principio di libertà di contrattazione collettiva, stabilito dall’art. 39, Cost., per cui non si potrebbe impedire il libero esplicarsi della disciplina collettiva in materia;

*Altro aspetto è quello della esiguità dell’indennizzo economico previsto in caso di licenziamento illegittimo, non sufficiente per scoraggiare il datore di lavoro dal commettere abusi (specie per le imprese di medio/grande dimensioni). E’ da precisare che l’indennizzo rappresenta non solo “un costo di separazione” per il datore di lavoro, ma anche una sanzione a seguito di un illecito. Il riferimento non dovrebbe dunque essere solo ad automatismi per anzianità di servizio, ma anche alla gravità della lesione inferta, con apprezzamento necessariamente discrezionale da parte del giudice (tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti).

Al riguardo si pone il problema del rispetto dell’art. 24 della Carta Sociale europea, in base al quale al licenziamento illegittimo deve conseguire una misura riparatoria che non abbia i caratteri dell’esiguità (si potrebbe pertanto sostenere la disapplicazione della norma italiana in contrasto con l’ordinamento comunitario, ai sensi dell’art. 117 Cost.);

*Il paradosso delle “tutele crescenti”: il nuovo (più blando) regime sanzionatorio può tradursi in uno svantaggio per l’impresa (da qui l’interesse anche per l’impresa a ripristinare, per via contrattuale, la disciplina precedente). Ciò in primo luogo in riferimento alla prescrizione dei diritti retributivi, dal momento che i lavoratori “a tutele crescenti”, il cui posto di lavoro non è più dotato di “stabilità reale”, potrebbero ora rivendicare i propri crediti retributivi fino a 5 anni dopo la cessazione del rapporto di lavoro (tornando ad applicarsi senza eccezioni il principio stabilito dalla storica sentenza della Corte Costituzionale n. 63/1966, la quale, riscrisse l’art. 2935 del codice civile, precisando che, nel rapporto di lavoro subordinato – allora come ora non garantito dalla “stabilità reale” dell’art. 18 St. lav.- la prescrizione dei diritti retributivi comincia a decorrere dalla cessazione del rapporto medesimo e non, come testualmente prevede la norma, “dal momento in cui il diritto può essere fatto valere”).

Vi sarebbe inoltre il rischio di disincentivare i lavoratori “vecchi assunti” a cambiare datore di lavoro, con grave e paradossale ostacolo al turn over e alla mobilità professionale.

*Altro aspetto problematico riguarda la tutela dei lavoratori in caso di cambio di appalto. Nei cambi di appalto, per il calcolo dell’indennizzo economico in caso di licenziamento, l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa che subentra nell’appalto si computa tenendo conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata. Si da’ dunque per scontato che, diversamente dall’ipotesi di cessione d’azienda o di ramo di essa, ex art. 2112 del cod. civ., in cui il rapporto di lavoro dei lavoratori ceduti prosegue senza soluzione di continuità, nel caso di subentro in un appalto il rapporto di lavoro alle dipendenze dell’appaltatore uscente si estingue e si instaura un nuovo rapporto di lavoro alle dipendenze dell’appaltatore subentrante.

E’ da sottolineare come la materia della successione negli appalti, ivi compresa la stabilità dei rapporti di lavoro, trovi la propria disciplina nell’ambito della contrattazione collettiva (si vedano, tra gli altri, il CCNL Turismo, artt. 332 e seguenti; il CCNL Multiservizi, art. 4; il CCNL Igiene Ambientale, art. 6). Sul punto potrebbe essere opportuno rafforzare la contrattazione territoriale vincolando le stazioni appaltanti, a partire da quelle pubbliche, al rispetto delle “clausole sociali”.

Va peraltro rilevato che in base all’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003, “l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte di azienda”. Ciò significa che “il passaggio del dipendente da un’azienda all’altra in caso di cambio appalto può avvenire, diversamente da quanto prevede l’art. 2112 cod. civ. senza riconoscere l’anzianità del lavoratore o la sua retribuzione o il suo livello di inquadramento, salvo che il contratto collettivo preveda condizioni di miglior favore disponendo, per esempio, che il rapporto prosegua a parità di condizioni” (cfr. Min. lavoro, risposta ad interpello n. 22, del 1° agosto 2012).

Richiamando tuttavia la normativa comunitaria, in special modo la direttiva n. 77/187/CEE, alla luce dell’interpretazione fattane dalla Corte di Giustizia UE (cfr. in particolare sentenza 24/1/2002, n C -51/00, in causa Temco Service Industries SA), sono da considerare trasferimento d’azienda, con continuità dunque dei rapporti di lavoro, quei cambi di appalto in cui l’attività si basi essenzialmente sull’utilizzo di mano d’opera, come ad esempio nel settore delle pulizie, e pertanto sussista conservazione dell’identità economica esercitata. Si potrebbe dunque fornire una lettura dell’art. 29, comma 3, del d.lgs n. 276/2003 più aderente alla normativa comunitaria, secondo la quale l’acquisizione di personale da parte dell’impresa che subentra nel contratto di appalto non è ragione, di per sé, di applicazione dell’art. 2112 del cod. civ. , senza escludere che possa diventarlo se valutata unitamente ad altri elementi, secondo gli insegnamenti della giurisprudenza comunitaria.

La previsione in esame non dovrebbe estendersi all’ipotesi di rapporti di lavoro cessati ed instaurati nell’ambito di società controllate o collegate ai sensi dell’art. 2359 del cod. civ. – cd. “mobilità infragruppo” -, particolarmente rilevante nei processi di riorganizzazione di gruppo disciplinati dai contratti collettivi, specie nel settore dei servizi (ad esempio nel comparto bancario ed assicurativo), e ciò per la sostanziale identità del datore di lavoro.

*In tale contesto va dato risalto al fatto che la reintegra comunque permane nel caso di licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale. Si aprono dunque nuovi sviluppi per i licenziamenti discriminatori ovvero perché riconducibili ad altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge (ivi compreso il licenziamento per motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 cod. civ.), utilizzando tutti gli spazi, anche sul piano processuale, offerti dai d.lgs. n. 215 e 216/2003. Il riferimento è in particolare alle forme di discriminazione dirette ed indirette e all’inversione parziale dell’onere della prova (così al fine di dimostrare la sussistenza del comportamento discriminatorio, la vittima può dedurre in giudizio elementi di fatto anche sulla base di dati statistici). Ciò è di particolare significato per le nuove realtà che si presentano nel mondo del lavoro (lavoratori anziani, stranieri, donne in età non giovanissima).

Ruolo della Contrattazione Collettiva:

Oltre allo strumento della cessione di contratto individuale, di cui all’art. 1406 ss. del codice civile, dove il consenso del lavoratore opera come elemento costitutivo, in cui non si dà luogo a licenziamento e riassunzione ma solo a prosecuzione del rapporto senza alcuna soluzione di continuità (anche su tale aspetto è tuttavia opportuno che la contrattazione collettiva precisi espressamente la disciplina applicabile; cfr. accordo Novartis Farma di Origgio (Va), del 20 marzo 2015), è da ritenere quanto segue:

*La contrattazione collettiva (o individuale) può prevedere un’indennità risarcitoria oppure un’anzianità convenzionale maggiore rispetto a quella legale, stabilita dal d.lgs. n. 23/2015, in caso di licenziamento illegittimo;

*La contrattazione collettiva può prevedere clausole di stabilità o di durata minima garantita del contratto di lavoro;

*La contrattazione collettiva, nei “codici disciplinari”, dovrebbe meglio specificare le mancanze che, a seconda della gravità, diano luogo a sanzioni conservative (o meno), stabilendone l’applicazione anche agli assunti dopo il 7 marzo 2015;

*Fermo restando che l’art. 18, St. lav. non è stato abrogato (essendo infatti in vigore per “i vecchi assunti”) nulla vieta che si possa prevedere pattiziamente una tutela ricalcata in parte o in tutto su quella dell’art.18, St. lav., come peraltro precisato in giurisprudenza (tra le altre Cassazione, 26 maggio 2000, n. 6901). Nel caso specifico si è trattato della figura del dirigente, ma si possono richiamare altri esempi di estensione contrattuale dell’ambito oggettivo e soggettivo della tutela reale, quali gli “accordi di armonizzazione” ex art. 47, legge n. 428/1990, in tema di trasferimento d’azienda in crisi, dove si è previsto l’ultrattività della tutela reale per i lavoratori trasferiti in nuove aziende con meno di 16 dipendenti (nell’ipotesi di trasferimento di azienda in crisi, in base all’art. 47, comma 5, legge n. 428/90, si può derogare all’art. 2112, cod. civ. purchè vi sia la certificazione dello stato di crisi aziendale e la stipula di un accordo sindacale per il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione);

*Il revival dell’ art. 8. , legge n. 148/2011. Sempre in un’ottica conservativa della disciplina precedente, altra soluzione, utile anche sul piano processuale, potrebbe essere l’esplicito richiamo da parte della pattuizione collettiva dell’art. 8, della legge n. 148/2011 (sulla c.d. “contrattazione di prossimità”), che consente alla contrattazione collettiva aziendale, per finalità di difesa e di sviluppo dell’occupazione, di operare in deroga non solo a norme del CCNL ma anche di legge su un’ampia serie di materie, tra cui le “conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro”;

*In caso di licenziamento collettivo, ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991, il diritto alla reintegrazione sussiste solo se il licenziamento è intimato senza l’osservanza della forma scritta, mentre in caso di violazione delle procedure, compresa quella sindacale, a cui si aggiunge ora la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori, si applica solo l’indennizzo monetario (tra un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità) al pari di quanto previsto per i licenziamenti individuali di carattere economico.

E’ questa tra le norme più discusse e discutibili.

I criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (“nucleo essenziale” della disciplina in materia; si veda Cassazione n. 18366/2014) sono in genere definiti dalla contrattazione collettiva e solo in mancanza dalla legge; per cui le soluzioni sono trovate a monte, in sede di accordo sindacale, la cui tenuta sarebbe opportuno non indebolire. La previsione peraltro, trovando applicazione solo ai neo assunti a tutele crescenti, rischia, più che su altri aspetti, di generare confusione, stante la differenza di regimi sanzionatori tra rapporti vecchi e nuovi. D’altro lato si potrà sempre sostenere il carattere discriminatorio delle scelte effettuate. Anche a tale riguardo può utilmente intervenire la contrattazione collettiva. E’ da precisare che se da un lato la individuazione dei lavoratori da licenziare senza previo accordo sindacale dà luogo ad un costo economico maggiore per l’impresa (ai sensi dell’art. 5, comma 4, della legge n. 223/1991), dall’altro la ripetuta e consapevole violazione delle procedure sindacali, previste dall’art. 4, comma 12, della legge n. 223/1991, può altresì costituire comportamento antisindacale, ai sensi dell’art. 28, dello Statuto dei lavoratori;

*Il decreto rafforza, come opportuno, le procedure volte a scoraggiare il ricorso giudiziario, tramite l’introduzione di una nuova forma di conciliazione “agevolata”, utilizzabile da tutte le aziende, a prescindere dal numero dei dipendenti, e per tutte le tipologie di licenziamento. Positivo è anche il riferimento, accanto alla sede sindacale, alle commissioni di certificazione, tra cui gli enti bilaterali, quali sedi presso le quali il datore di lavoro può presentare la sua offerta di carattere economico.

D’altro lato la conciliazione torna ad essere pienamente facoltativa e non più obbligatoria, secondo quanto previsto dalla “legge Fornero”, seppur limitatamente al licenziamento per giustificato motivo oggettivo davanti alla DTL (è da segnalare che la conciliazione preventiva presso la DTL ha dato buoni risultati applicativi, risolvendosi positivamente nel 47% dei casi).

E’ da ritenere che l’accettazione dell’offerta economica da parte del lavoratore non pregiudichi il suo diritto alla NASpI, dal momento che tale accettazione non può configurarsi come risoluzione consensuale del rapporto di lavoro; si tratta infatti pur sempre di disoccupazione involontaria verificatasi per atto del datore di lavoro.

In una prospettiva di semplificazione ed omogeneizzazione delle procedure conciliative sarebbe auspicabile rendere l’utilizzo della conciliazione agevolata di generale applicazione (anche per i lavoratori già assunti prima del 7 marzo 2015);

*Una contrattazione innovativa dovrebbe principalmente puntare sul ricollocamento dei lavoratori, anche attraverso un maggiore investimento nella formazione, facendo sì che l’impresa incrementi le risorse per aiutare il lavoratore a trovare un nuovo impiego, tramite ad esempio il finanziamento di una parte del voucher di ricollocazione.

Per tali aspetti un ruolo significativo può essere svolto dagli enti bilaterali, ai quali è affidata dalla normativa vigente (art. 6, d.lgs. n. 276/2003 e successive modifiche ed integrazioni), tra l’altro, l’attività di “intermediazione” tra domanda ed offerta di lavoro.

*Il presente contributo è frutto del confronto e dei suggerimenti di Livia Ricciardi, del dipartimento Mercato del lavoro della Cisl, di Renzo Cristiani, Mimmo Iodice e Roberto Valettini, avvocati Cisl, nonchè di Gualtiero Biondo e Gaetano Quadrelli, del Coordinamento Nazionale Uffici Vertenze Cisl